A CHI TI FAI PROSSIMO?
Sembra che il dottore della legge – di cui si parla all’inizio del vangelo - sia mascherato da discepolo ai piedi di Gesù (“si alzò…”): lo “tenta” sulla sua ortodossia, sapendo interpretare la Legge nel suo centro, che è amare Dio in quattro dimensioni (col cuore indiviso, con tutto lo spirito vitale, con le forze fisiche e materiali disponibili e con l’intelligenza, cf. Dt 6,4ss) e amare il prossimo “come si ama se stessi” (cf. Lv 19,18). Ma il suo problema è: «Chi è il mio prossimo? Chi fa parte della cerchia di persone che io devo amare come me stesso?». Non è chiaro quale sia la sua idea riguardo a questa cerchia di persone. In ogni caso egli sembra convinto che qui ci debbano essere dei limiti. Per gli ebrei, solo il connazionale era considerato come il prossimo che si è obbligati ad amare e aiutare.
Gesù racconta allora la celebre parabola del buon samaritano, parabola sapienziale, per coinvolgere l’interlocutore. La domanda «chi è il mio prossimo?» è trasformata da Gesù in: a chi ti fai prossimo? Lo scriba è costretto così a immedesimarsi con l’aggredito dei briganti, un giudeo probabilmente, e a confrontarsi con il samaritano, lontano dalla Legge, figura opposta agli uomini del culto (sacerdote e levita, giudei per eccellenza). Dopo la mancata relazione di aiuto dei connazionali (vedono ma passano oltre), solo lo straniero e nemico considera “prossimo” quel giudeo in mezzo alla strada. “Ne ebbe compassione”, dice il testo. E questa compassione si traduce in gesti concreti, sottolineati da verbi che indicano “cura”: fasciare ferite, versare olio e vino, caricare il corpo, spendere per assistere…
Gesù invita a non amare in modo ideologico, poiché il moribondo ha bisogno del samaritano: unica speranza è il pronto soccorso. Per Gesù, amare significa responsabilizzarsi sulle proprie scelte, accettando l’altro nella sua alterità, nel suo limite e nelle sue ferite. Non occorre chiedersi dunque chi è il prossimo, ma farsi prossimo a tutti, abbattendo barriere dentro e fuori. Lo diceva don Andrea Santoro, martire della fede in Turchia: «Accanto alla gioia con cui mi sveglio ogni mattina pensandomi amato dal Signore nel luogo dove lui mi vuole, faccio anch’io i conti con le trafitture quotidiane, quelle che mi vengono da fuori e quelle che mi vengono da dentro… L’impegno è a rimanere “finestra” aperta anche quando ti sembra di incontrare muri o porte sbarrate».