Parrocchia 
Santi Angeli Custodi

Francavilla al Mare - Chieti

Riflessioni & letture

Si può sradicare la povertà o è solo un'utopia?

17 Ottobre 2023
 

Si può sradicare la povertà o è solo un'utopia?

17 ottobre: giornata mondiale per l'eliminazione della povertà. Ecco le riflessioni di chi si inginocchia ogni giorno a fianco dei poveri.
Si può sradicare la povertà o è solo un'utopia?
Luca Fortunato, responsabile di una struttura che accoglie persone emarginate, va in strada regolarmente con un gruppo di volontari per incontrare i senza fissa dimora. Ci racconta la storia di Giacomo, 46 anni, finito in strada dopo aver perso il lavoro. Malnutrito e depresso, si stava lentamente lasciando morire. Oggi sembra una persona nuova. Vi raccontiamo come è stato possibile.
 
Ogni anno il 17 ottobre viene celebrata la giornata internazionale per l’eliminazione della povertà, promossa dal Consiglio d’Europa fin dal 1992. Questa data è stata scelta dopo che padre Joseph Wresinski, un sacerdote francese che fondò il Movimento per i diritti umani “ATD Quarto Mondo”, si riunì nella piazza del Trocadero a Parigi insieme ad altri 100mila difensori dei diritti umani proprio il 17 ottobre del 1987. Il loro scopo era di esortare l'umanità ad unirsi per far rispettare i diritti umani e riuscire quindi a sradicare la povertà che attanaglia milioni di persone nel mondo.
Luca Fortunato con bambino
Foto di Gianluca Cornacchia
Queste ricorrenze sono utili solo se diventano l’occasione per mettere a fuoco il dramma di tante persone povere. Abbiamo chiesto un quadro sulla situazione attuale a Luca Fortunato, responsabile della Capanna di Betlemme a Chieti che ospita decine di persone emarginate. Luca inoltre va in strada regolarmente con un gruppo di volontari per incontrare i senza fissa dimora e raccoglie le domande di aiuto di tante famiglie e persone in difficoltà.

Chi sono i poveri oggi?

«Sicuramente c’è una povertà economica che è sotto gli occhi di tutti: siamo in un Paese in recessione, con un’inflazione che fa aumentare i costi. Ne deriva uno stato un impoverimento economico nettissimo, considerando il fatto che gli stipendi non sono aumentati. Lo vediamo dalle richieste che ci arrivano: ci son tante persone che non riescono ad arrivare alla fine del mese, non riescono ad accedere ai servizi necessari, molti non ce la fanno a comprare il materiale scolastico per i figli e non riescono a garantire un aiuto ai bambini per i compiti. Stiamo parlando anche di famiglie di ceto medio, che prima non avevano questa difficoltà. Di conseguenza questa povertà ricade sui bambini che non possono accedere alle attività extrascolastiche e che non riescono a frequentare in modo sereno la scuola dell’obbligo».

Hai visto un aumento della povertà in questo ultimo periodo?

«Sì, l’abbiamo notato soprattutto negli ultimi mesi, da quando, lo scorso luglio, hanno interrotto gli ammortizzatori sociali per migliaia di famiglie e non sono stati sostituiti da proposte di lavoro o da altri ammortizzatori. Già dal 1° agosto abbiamo notato una caduta: alcune famiglie non riescono a pagare le bollette o l’affitto. Tanti nuclei familiari, che beneficiavano di alcuni ammortizzatori sociali, sono scivolati da uno stato di povertà alla miseria». 

Quindi la povertà come mancanza di risorse economiche per i beni necessari e primari…

«Non solo. Quello che noto è che sempre di più si sta diffondendo anche una povertà cronica psicologica: tantissime persone, a causa della pandemia e post-pandemia, hanno sviluppato la convinzione di non potersi più realizzare, di non poter più fare qualcosa, di non poter più sperare, sognare e quindi neanche si mettono in moto per provare a costruire qualcosa di migliore. 
Questa condizione, che secondo me è molto grave, non solo coinvolge il settore degli adulti, soprattutto di chi ha più di 45-50 anni, ma purtroppo colpisce anche le fasce di giovani e giovanissimi. È urgentissimo trovare delle soluzioni per aiutare queste persone a uscire da questa povertà cronica psicologica». 

Perciò bisogna uscire dalla convinzione che la povertà sia principalmente un fattore economico…

«Nell’ascolto e nella relazione di prossimità e di aiuto, soprattutto verso le persone italiane, abbiamo notato una sofferenza psicologica che è il risultato del fatto che viviamo in una società ansiogena, che porta poi a un disagio psicologico e interiore. Questa sofferenza a volte sfocia in una disfunzione psichiatrica, che a sua volta può sfociare in dipendenze patologiche. Gli approcci sociali sono insufficienti perché il Servizio Sanitario Nazionale non riesce a star al passo, mentre invece in prima linea c’è l’associazionismo italiano. Purtroppo ho letto alcune notizie di questi giorni che sottolineano ulteriori tagli al sistema sanitario nazionale».

Il quadro che tu descrivi è drammatico. Dobbiamo rassegnarci a tutto questo o possiamo fare qualcosa? 

«La risposta è sviluppare una mentalità centrata sulla condivisione, partendo sia dal basso che dall'alto. L’alto sarebbe l’intervento governativo, il basso invece è nel senso che anche chi riceve aiuti privati o ammortizzatori sociali dovrebbe impegnarsi nella condivisione, perché ognuno ha dei talenti, dei doni che sono utili ad altri. Io penso che un modo per togliere la povertà sarebbe quello di scegliere una condivisione circolare, cioè una restituzione circolare. Questo sistema non solo ridurrebbe la povertà in maniera considerevole, ma potrebbe essere “portatore sano” di un senso di auto-realizzazione. Cioè ognuno di noi non si limiti a provare a fare qualcosa per se stesso, ma provi a fare qualcosa di grande per se stessi e per gli altri. In fondo penso che i santi abbiano proprio cercato di realizzare questo. Don Oreste Benzi, che ho avuto il dono di conoscere personalmente, ha fatto proprio così. Questo stile di condividere ciò che si ha e ciò che si è fa sentire veramente bene tutti: chi dona e chi riceve. Inoltre chi riceve, se poi dona a sua volta, condivide quello che può e quello che è. Si crea così un’educazione alla condivisione. Questo stile è curativo, perché cura non solo la povertà e l'egoismo, ma anche le dipendenze e le depressioni. Non a caso spesso psicologi e terapeuti consigliano ai pazienti di fare volontariato, proprio perché c'è un arricchimento non solo per il beneficiario, ma anche per chi lo svolge, cioè chi si dona. Dalla mia esperienza posso dire che questo potere curativo ha una valenza “scientifica e matematica” perciò è uno stile che va riconosciuto e proposto. Dal nostro punto di vista, e mi verrebbe da dire anche da quello di don Oreste, la risposta è: “Fraternità e condivisione, non c'è un altra via”».

Questo per quanto riguarda un’azione che parte dal basso. D’altra parte, per contrastare la povertà lo Stato, in diverse forme e misure, offre i cosiddetti ammortizzatori sociali. Cosa ne pensi?

«Gli ammortizzatori sociali possono essere utili e averli tolti ha spinto molte famiglie dalla povertà alla miseria. L’errore degli ammortizzatori sociali, o anche delle pensioni previdenziali legate all’invalidità (soprattutto quelle con le percentuali basse, dove le persone hanno un certo grado di autonomia), è legato al fatto che questi fratelli e sorelle devono poter avere la possibilità di svolgere delle attività per gli altri. L’ammortizzatore in sé è utile per combattere una povertà economica, ma non è utile in se stesso per combattere una povertà cronica psicologica. Infatti la nostra Costituzione dice che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro e anche don Giussani diceva che l’uomo non può non lavorare, perché proprio nel lavoro, nell’attività - che dev’essere alla portata di ogni persona -, passa la realizzazione. Se non c’è un lavoro vero e proprio, credo che sarebbe importante creare degli spazi in cui i beneficiari di queste pensioni di invalidità (o di ammortizzatori sociali), nei limiti di quello che riescono a fare, possano partecipare mettendo in gioco i loro talenti e doni. Senza partecipazione c’è l’isolamento. Quando le persone sono isolate, vanno incontro a un’inerzia interiore che porta a un disagio personale che poi si riversa anche come disagio familiare e sociale.
È una cosa su cui sto riflettendo spesso ultimamente. Ho proposto anche nel nostro Comune di creare un tavolo di lavoro per vedere insieme alcune proposte per aiutare le persone a uscire da questa povertà cronica psicologica». 

Una storia vera: a 46 anni voleva lasciarsi morire, poi invece… 

Luca è stato testimone di un miracolo dei nostri giorni, proprio legato alla povertà, e ce lo racconta:
«Pochi mesi fa abbiamo incontrato per strada un uomo di 46 anni. Lo chiamerò Giacomo, per questioni di riservatezza. Giacomo è un papà separato che aveva da poco perso il lavoro. Quando lo abbiamo incontrato viveva per strada ed era in uno stato di depressione tale che non voleva essere aiutato fa nessuno. Non percepiva nessun ammortizzatore sociale perché aveva perso la residenza, e non voleva entrare alla Capanna di Betlemme (la nostra casa in cui accogliamo persone in difficoltà) dicendo che non sopportava stare con altre persone. Voleva essere lasciato in pace e voleva lasciarsi morire.
Poi ha iniziato a star male, mangiava poco e vomitava tutto. L’abbiamo portato all’ospedale e i medici hanno detto che era malnutrito. Prima di dimetterlo i dottori gli hanno spiegato che aveva rischiato di morire per il suo problema di malnutrizione e per la depressione non curata. A quel punto ci ha contattato, dicendo che voleva venire a vivere in Capanna. I primi mesi rifiutava di essere aiutato con una terapia farmacologica; diceva che sentiva che ormai il suo corpo stava morendo, che lui non era più capace di far niente, dovevamo lasciarlo stare perché lui stava per morire, perché si sentiva di avere un brutto male. Noi gli abbiamo fatto fare diverse analisi che per fortuna non hanno evidenziato nessun tumore. Successivamente ha acconsentito per fare una piccola cura farmacologica.
Poi, 20 giorni fa, si è presentato un amico della Comunità chiedendoci se avevamo qualche ragazzo disposto a lavorare per lui nella raccolta delle olive. Allora abbiamo proposto a Giacomo di fare questa raccolta, con tutti i timori che fosse un lavoro troppo pesante per il suo fisico, ma dopo il primo giorno molto faticoso, ha preso un abbacchiatore e da lì è partito come un treno: ha già fatto 20 giorni di lavoro e il titolare dell’azienda ci ha detto che non saprebbe come fare se non ci fosse Giacomo. Lui ha ringraziato Dio e ha ringraziato noi e ha capito che era un blocco mentale.
Quando parlo della povertà come cronicità psicologica, intendo proprio questo: è fondamentale proporre qualcosa, il lavoro è terapeutico perché riattiva le persone. Avevamo parlato col datore di lavoro e gli avevamo spiegato che bisognava avere un po’ di pazienza con Giacomo e queste attenzioni sono servite. 
Ora Giacomo è ritornato a sorridere, è felice. Nei giorni in cui non lavora va al bar a prendersi un cappuccino e la brioche. Per noi è un miracolo, dopo averlo visto distrutto, rassegnato a lasciarsi morire, ora è come rinato.
Qual è stata la cura che ha salvato Giacomo? Un insieme di cose, tutte importanti: la prossimità da parte nostra, le cure mediche, la proposta di un lavoro in cui il datore del lavoro ha avuto la sensibilità di accoglierlo e di aspettare i suoi tempi. 
Al contrario, se ci fosse stata indifferenza, se non ci fosse stata una relazione di prossimità, o le cure mediche adeguate o un datore di lavoro disponibile ad accompagnare, quell’essere umano sarebbe morto.
Il progetto, l’intervento che è stato fatto per salvare Giacomo si regge su 3 pilastri: un aspetto sociale (la relazione di prossimità), un aspetto sanitario (le cure farmacologiche) e il terzo pilastro è l’ambito lavorativo. Non a caso la Comunità Papa Giovanni XXIII, proprio per volontà di don Benzi, ha aperto le cooperative sociali, che danno lavoro a gente che abbiamo strappato dalla strada, alle persone di cui ci prendiamo cura nelle case famiglia.
Questa è una strategia sempre valida, oggi ancora di più va applicata perché può salvare delle vite, come quella di Giacomo».
 
 
 
 

RICONOSCERSI IN UNA DONNA

DAL SITO SETTIMANANEWS

Riconoscersi in una donna

di: 
 

Mi è stato suggerito di parlare di Michela Murgia, nonostante su di lei sia già stato speso un fiume di parole, perché posso farlo da credente e da teologa ma, soprattutto, da amica. Questo infatti siamo state intensamente. L’una per l’altra.

Un bellissimo libro che ho avuto modo di leggere quest’estate mi offre d’altra parte una chiave di lettura particolare per un evento – la morte di Michela e, in particolare, il suo congedo con un funerale tanto religioso da essere politico e tanto politico da essere religioso – di cui è stato detto tutto il male possibile da chi non l’ha conosciuta né c’era e che resta invece impresso nella mente e nel cuore di chi c’era come un momento alto di fede in Dio e negli «uomini che egli ama» (Lc 2,14). Comprese, magari, anche le donne!

Lo ha scritto con grande efficacia Antonio Autiero su La Stampa del 15 agosto: quando le parole della liturgia e il racconto della vita, sia pure in modo ancora un po’ incerto e goffo forse, si snodano le une accanto alle altre e si intrecciano le une alle altre, il popolo piange e dice amen perché si crea la comunità di coloro che sentono di essere lì perché sono stati «convocati»: dalla vita e dal Dio della vita.

Del resto, nel libro della legge di Mosè che viene proclamata da Esdra, sacerdote e scriba, a coloro che erano tornati dalla deportazione non ci sono certo scritti solo i dieci comandamenti, possibilmente nella versione del Catechismo di Pio X come alcuni similcredenti analfabeti biblici pretendono, ma si tratta piuttosto, come ritengono alcuni studiosi, del Pentateuco attuale dove sono raccolte, accanto a tante norme, anche tante storie, più o meno mitiche e, soprattutto, più o meno edificanti e tante aspirazioni intramontabili. Ed è a tutto questo grande racconto che il popolo dice «amen» piangendo (Ne 8,1-8).

Apoteosi

Un libro – dicevo – ha ispirato queste righe, Immortali per caso. Uomini diventati divini senza volerlo (Bollati Boringhieri 2023), in cui la storica Anna Della Subin analizza con competenza e acume critico il fenomeno dell’apoteosi, quella pratica conosciuta da tutte le diverse culture più antiche ma che ha visto un enorme incremento, in età moderna, cioè da quando Cristoforo Colombo sbarcò nel Nuovo Mondo, perché mai come in età moderna e contemporanea il pianeta ha visto la nascita di tante divinità involontarie.

«Il dio accidentale infesta la modernità», afferma Subin, e ci conduce dentro la ricostruzione di queste pratiche ascensionali attraverso cui «Lui – perché è sempre un lui – avanza sconcertato fin nel XXI secolo, inseguendo un’autorità secolare e ritrovandosi invece sacralizzato. Appare in ogni continente della mappa, in tempi di invasione coloniale, lotta nazionalista e agitazione politica» (p. 17).

D’altra parte, lo hanno detto alla radio solo pochi giorni fa che i fan di Andy Warhol dal 1987 portano ogni anno sulla sua tomba barattoli di zuppa Campbell, per non parlare di quanto succede, ormai da 46 anni, nell’anniversario della morte di Elvis Presley. Ma Subin parla addirittura di un certo culto fiorito intorno alla figura di Filippo di Edinburgo.

Non entro nei percorsi complessi attraverso cui un gruppo umano costruisce le proprie apoteosi. Né, tanto meno, nella questione altrettanto complessa del processo di apoteosi che ha portato Gesù di Nazaret a essere colui che siede alla destra del Padre e verrà nell’ultimo giorno a giudicare vivi e morti.

I teologi sanno molto bene che l’intreccio tra evocazioni tratte dalle religioni antiche, elaborazioni teologiche del tutto originali, massicce implicazioni politiche e ricadute etiche ha concorso a fare di quell’apoteosi del profeta di Galilea il momento originante di una fede che è riuscita ad attraversare epoche e culture in modo singolarmente differente da altre apoteosi religiose. Né è stata condannata all’oblio, ma anzi continua ad intercettare aspirazioni alla salvezza, aspettative di giustizia, inesauribili risorse di amore fraterno.

Mi interessa riflettere invece sulla necessità che il funerale di Michela Murgia ha fatto emergere con forza e mostrato in tutta evidenza. La necessità di riconoscersi in un personaggio, in un percorso umano molto singolare ma, al contempo, di pubblica proprietà perché tutti hanno potuto attingere a quello che era, pensava, diceva e scriveva, a una figura che ha riscattato la politica sia civile che religiosa in un momento in cui essa, ormai incagliata nelle secche non solo economiche, ma soprattutto progettuali, è incapace di riforme ed ha tradito ogni anelito collettivo ed eroso ogni speranza. E di riconoscersi, finalmente, in una donna!

Il giorno non è lungo abbastanza

Non si tratta né di esaltazione né di alienazione. Anzi. Se il New York Times ha dedicato alla scrittrice i cui libri sono stati tradotti nelle più svariate lingue del mondo la sua prima pagina mentre nel piccolo mondo di un’Italietta litigiosa le vengono quotidianamente lanciate palate di insulti, questo dice poco su di lei, molto su di noi.

Dice molto su questo atteggiamento – non me la sento di chiamarla cultura – che si spaventa di fronte all’originalità di un pensiero, alla provocatorietà di una critica, al coraggio di un’indicazione di percorso, soprattutto se essi impongono di andare oltre qualsiasi status quo, ingiusto per statuto storico, verso una realtà un po’ più giusta e più bella per gli esclusi dai banchetti della vita.

Un atteggiamento che viene da lontano, ma che fa ormai letteralmente implodere i social e incide in modo preoccupante sulla costruzione di un comune orizzonte di senso e di un condiviso sentire democratico. E che non va confuso con la diversità delle opinioni, la dialettica delle argomentazioni o il confronto delle convinzioni perché è radicato solo nella paura di perdere i propri privilegi.

Nessuno in quella Chiesa degli artisti o fuori di essa, fosse o meno credente, ha pensato per un attimo che Michela non fosse, come tutti gli umani, carica di contraddizioni, capace di ingenerare, a seconda dei momenti e delle situazioni, sia empatia che antipatia, oppure che le sue parole non fossero tanto graffianti che lenitive.

Nessuno l’ha «divinizzata» perché la sua apoteosi raccontava di noi, prima ancora che di lei. Del nostro desiderio che qualcuno ogni tanto ci presti pensieri e parole per volare alto, del nostro bisogno di non perdere la fiducia nel genere umano e nella sua storia, della necessità di voci che indichino la strada e di profezie che segnino i cammini.

Quel silenzio commosso che ha «fatto compagnia» alla bara per più di mezz’ora prima che iniziasse la celebrazione, quella partecipazione nelle risposte e nei canti divenuta ormai merce rara nelle nostre liturgie funebri, quella piazza capace di restare muta, ma anche di far sentire la propria partecipazione a un rito da cui era stata purtroppo esclusa esplodendo in interminabili applausi hanno scritto una pagina della riflessione spirituale di Michela Murgia che conosceva troppo bene la Bibbia per non sapere che teologia e liturgia sono espressioni politiche. E non ne aveva paura.

Un’amica mi ha inviato una poesia del poeta giapponese Matsuo Bashò che, in soli tre versi, dice tutta la mia gratitudine per averla avuta come amica e il mio dolore per averla persa:

«L’allodola canta per tutto il giorno
e il giorno non è lungo abbastanza
».

Questo sito utilizza i cookie per migliorare la tua esperienza sul sito. Continuando la navigazione autorizzi l'uso dei cookie.