L’inizio e la fine del Vangelo (Lc 2,22.39) non hanno nulla di straordinario. Maria e Giuseppe compiono ciò che la Legge comanda riguardo a un figlio primogenito: lo consacrano a Dio e riconoscono in questo modo che non loro, ma Dio è il Signore; il bambino è nato non per fare la loro volontà, ma quella di Dio. Quando leggiamo: «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui» (Lc 2,40) possiamo ben immaginare lo sguardo di benevolenza e il senso di fierezza con cui i genitori debbono aver seguito la crescita di Gesù. Non è così per tutti i genitori?
Eppure, la gioia della vita che nasce porta con sé anche il germe della sofferenza. Di quel bambino un profeta ha detto cose grandi; lo ha salutato come “salvezza di Dio”, “luce dei pagani”, e “gloria d’Israele” (Is 40,5); ma sono state annunciate anche delle contraddizioni e delle sofferenze: «Egli e qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele (…) e anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,34.35).
In nessuno il mistero della vita e della morte trova compimento come in Gesù. Forse proprio guardando a Lui si può guardare la vita così com’è senza dover censurare gli elementi negativi. Non è cancellando mentalmente il male o la morte che si garantisce la fede nella vita, ma guardando in faccia la realtà con tutti i suoi aspetti negativi.
E guardando, nello stesso tempo, alla potenza di Dio che «è capace di far risorgere i morti» (Eb 11,19).