«L’AMORE È UN ALTO GRIDO»
«Elì, Elì, lemà sabachthàni?» - «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Il terribile grido di Gesù poco prima di morire in croce, ispirato al salmo 22 - preghiera di un giusto perseguitato e salvato da Dio - rivela in tutta la sua tragicità il dramma della passione. Il grido rompe un lungo silenzio. Qualche ora prima infatti Gesù non aveva risposto nulla al sommo sacerdote Caifa che lo interrogava. Gesù, sottolinea con una certa insistenza l’evangelista, «taceva» (Mt 26,63). E mentre lo accusavano i sommi sacerdoti e gli anziani «non rispondeva nulla». Anche a Pilato «non rispose neanche una parola, con grande meraviglia del governatore» (Mt 27,12-14).
Dopo aver rapidamente ricordato il cammino verso il Calvario e la crocifissione, Matteo riporta le derisioni e gli insulti. Tutti si accaniscono a sottolineare l’impotenza alla quale quest’uomo è ridotto. Sono sempre gli stessi attori del momento della condanna: sacerdoti, scribi, anziani e folla anonima; sotto la croce anche i passanti e accanto a lui i due ladroni.
Gesù è completamente abbandonato e non può fare altro che gridare: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato». Sono le uniche parole di Gesù in croce nel vangelo di Matteo, l’unico momento nel quale Gesù si rivolge direttamente al Padre dopo la preghiera al Getsemani. Poi Gesù muore avvolto nel silenzio e senza aver ricevuto alcuna risposta dal cielo. Dio tace e Gesù muore con i suoi laceranti interrogativi.
A noi lettori di oggi, che conosciamo l’esito finale e sappiamo che Gesù è risuscitato dai morti, è quasi impossibile cogliere lo straziante senso di abbandono e di scoramento espresso da questo grido. Spesso dimentichiamo che i primi discepoli hanno vissuto la passione in tutt’altro modo e sono stati assaliti da terribili dubbi. Per essi la morte di Gesù in croce fu un momento di profondo sconforto e disorientamento. I loro sogni e le loro speranze andarono in frantumi. La conclusione era palese: ha fallito perché è finito nell’ignominia e nell’infamia, come i più deprecabili criminali.
I discepoli hanno però trovato nell’Antico Testamento e nella tradizione giudaica tardiva una figura che ha permesso loro di intravedere un barlume di speranza e, anche, di poter capire meglio il significato della passione di Gesù. Si tratta della figura del “giusto sofferente”, perseguitato ingiustamente e che Dio, alla fine, ristabilisce nei suoi diritti di fronte ai suoi avversari. Questa risposta divina, secondo il primo evangelista, la troviamo prima nei fenomeni cosmici, come il terremoto, che accompagnano la morte di Gesù, poi nella scena finale del vangelo (Mt 28,16-20).
Al lettore non può comunque sfuggire l’intensità di questo grido, che, al di là, di ogni precisa domanda, rappresenta il bisogno dell’umanità di gridare verso Dio. Questo grido Gesù lo lancia per sé e per noi. In lui ogni grido dell’uomo è il grido del Figlio verso il Padre. È per questo che l’Imitazione di Cristo riassume così il mistero: «L’amore è un alto grido».